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“Reddito di libertà”: la misura Inps in favore delle donne vittime di violenza

“Reddito di Libertà: dalla parte delle donne”, il convegno destinato alle donne vittime di violenza, voluto dal ministero delle Pari Opportunità e promosso dall’Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale), è la misura che va di pari passo all’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile per assicurare un futuro migliore per tutti.

Presentate le ultime misure Inps durante il convegno Reddito di Libertà per le donne vittime di violenza dove si è parlato delle iniziative – dal percorso legislativo al contributo economico, portate avanti in loro favore. Al convegno del 14 dicembre sono intervenuti Gabriella Di Michele, direttrice generale Inps, Maria Sciarrino, direttrice centrale Inclusione sociale e Invalidità civile Inps, Paola Paduano, dipartimento delle Pari Opportunità, Veronica Nicotra, segretaria generale ANCI e Renato Gasperi, coordinatore tecnico della Commissione Politiche Sociali della Regione Calabria.

Gabriella De Michele – Direttrice Generale Inps

Nell’introdurre i lavori, Gabriella Di Michele percorre le tappe legislative degli ultimi anni per arrivare alle attuali misure sulla decontribuzione, promozione e certificazione della parità di genere, previste dalla legge 162 del 2021 – a vantaggio delle aziende – ma pensate per agevolare l’assunzione e permanenza delle donne al lavoro. “La 162” commenta Di Michele “oltre ad intervenire sul codice delle pari opportunità, fotografa con cadenza biennale le opportunità di carriera, formazione, modalità d’ingresso e retribuzioni per verificare l’andamento occupazionale all’interno delle imprese”. Il datore di lavoro che non controlla la situazione può essere sanzionato con la conseguente perdita delle agevolazioni contributive; tuttavia, a questo atteggiamento sanzionatorio si inserisce una misura premiale, l’introduzione della certificazione di parità attribuita alle aziende per attestare le misure adottate dai datori di lavoro in grado di ridurre i gap di crescita (parità salariale per uguali mansioni, tutela della maternità). Le imprese “certificate” godranno di una decontribuzione dell’1% (50 mila euro l’anno) e questi strumenti di prevenzione, protezione ed assistenza alla parità hanno il fine di indurre gli imprenditori ad avere maggiore sensibilità nei confronti delle donne alle loro dipendenze così da generare consapevolezza del ruolo femminile.

Ruolo dei centri antiviolenza e del reddito di libertà

Paola Paduano – Dipartimento delle Pari Opportunità

La funzione dei centri antiviolenza e delle case rifugio è quella di vere sentinelle sul territorio nazionale che intervengono per l’uscita dal percorso di violenza, accompagnamento e reinserimento nel tessuto sociale, ha sottolineato Paola Paduano. L’excursus normativo tracciato dal capo del dipartimento delle Pari Opportunità parte dalle linee guida della Convenzione di Istanbul cui l’Italia ha aderito nel 2013, dove l’art.3 individua la violenza in tutte le sue forme ed inserisce la “violenza economica” una violazione dei diritti umani esortando gli Stati ad adottare misure per giungere ad una autonomia finanziaria e indipendenza delle donne. La violenza economica che limita lo sviluppo nella parità di genere e nell’empowerment femminile ha bisogno di essere sostenuta poiché è un fenomeno strutturale, e l’Italia per il gender equality index, è al 14 esimo posto in tema di parità. “Le Nazioni Unite” ha poi ricordato “hanno inserito il tema fra i 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile al 2030 ed il governo italiano per la prima volta si è dotato di una strategia nazionale che mira ad offrire stesse opportunità di sviluppo, formazione, lavoro e parità retributiva rispetto agli uomini”. Questi obiettivi si integrano con i principi ispiratori del piano nazionale antiviolenza presentato in Consiglio dei ministri il 18 novembre 2021. Aggiunge infine che “la misura del reddito di libertà prevista con il decreto 34/2020, ha immaginato un sostegno finanziario per le donne uscite dalla violenza impiegando 7 milioni di euro per restituire autonomia a loro e ai loro figli”.

Risposta dei Comuni ai servizi sui territori

Veronica Nicotra – Segretaria generale ANCI

La misura mostra il coraggio di varare interventi che in tempi normali non sarebbero stati introdotti per mancanza di adeguate risorse finanziarie ed il venire meno di una serie di vincoli europei, sottolinea Veronica Nicotra dell’associazione nazionale dei Comuni Italiani. I Comuni occupano un ruolo decisivo, sono il primo contatto per le donne vittime di violenza ed offrono un sostegno sociale, che al di là del contributo economico accolgono situazioni complesse che hanno bisogno di una presa in carico dove c’è la presenza di minori.

Renato Gasperi – Coordinatore Politiche Sociali Regione Calabria

La regione Calabria ha detto Gasperi ha partecipato alla predisposizione del provvedimento e le regioni si impegneranno con interventi sui territori in tema di prevenzione e protezione rispetto ad un fenomeno in crescita. “Alcune regioni” ha aggiunto “hanno aumentato il fondo ma occorrono più risorse per considerare le liste di attesa ed auspicare che esso diventi ordinario”. “Le regioni” conclude “porranno massima attenzione nella programmazione dei centri antiviolenza, soprattutto nel mettere a rete i servizi grazie ai fondi comunitari e del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) offrendo una reale risposta ai beneficiari”.

Dati sul reddito di libertà

Maria Sciarrino – Direttrice Inclusione e Invalidità civile Inps

“L’Inps” ha sottolineato Maria Sciarrino “con la circolare 166 del 8/11/2021 è intervenuto per rendere più agile l’accesso allo strumento e definire gli obiettivi che sono l’emancipazione e la tutela delle donne vittime di violenza in condizioni di povertà, percorsi di autonomia abitativa e personale, sostegno a percorsi scolastici dei figli e delle figlie minori”. Le destinatarie sono donne residenti sul territorio nazionale, cittadine italiane e comunitarie o extracomunitarie in possesso di regolare permesso di soggiorno, vittime di violenza senza figli o con figli minori. Una fase importante è la presa in carico dei centri antiviolenza e dei servizi sociali che legittimano il cammino di recupero verso l’autonomia. Gli importi destinati alle regioni – sulla base dei dati Istat al 1° gennaio 2020 – ammontavano complessivamente a 3 milioni di euro, e il modulo disposto dall’istituto si basa sull’autocertificazione, successivamente le dichiarazioni vengono rilasciate dal servizio sociale professionale ed il rappresentante del centro antiviolenza che garantisce il percorso di emancipazione ed autonomia intrapreso dalla donna. L’Istituto raccoglie telematicamente le domande dei Comuni per territorio e mette le persone in condizioni di accedere alla prestazione. In sintesi, si apre l’istruttoria in base ai requisiti previsti dalla norma – verifica del budget, titolarità dello strumento di pagamento – e si procede alla liquidazione che prevede un contributo di 400€ mensili concessi dall’Inps in un’unica soluzione per un massimo di 12 mesi. La norma prevede la compatibilità della misura con altri contributi statali (reddito di cittadinanza, sussidi economici al reddito, NASpi, etc) e si concilia con le misure erogate dalle regioni, dalle provincie autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali. La norma prevede infine che le regioni possano integrare i fondi attraverso la stipula di una convenzione ed è già stata prevista una bozza con il dipartimento delle Pari Opportunità in modo che dal 2022 ci sia un’ulteriore forma di collaborazione.

Report domande reddito di libertà

Reddito di Libertà – Report 13/12/2021, fonte INPS

Al 13 dicembre 2021 sono pervenute all’Inps un totale di 848 domande, di cui 72 da istruire, 36 in istruttoria, 256 non accolte che per problemi legati all’Iban possono essere riprocessate, accolte 484, pagate 449 per un budget totale di 2 milioni e 496 mila euro. La situazione sul territorio nazionale è diversificata: si passa da 188 domande della Lombardia alle 146 della Campania, 82 della Puglia, 43 dell’Umbria e 91 del Lazio. Questi dati conclude Sciarrino testimoniano la gravità della situazione e l’istituzione opera per un obbiettivo comune.

Cristina Montagni

Dal Centro Studi Americani riflessioni sulla parità di genere da tatticismo ad approccio sistemico

La grande sfida italiana riguarda le donne: il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia è del 53%, inferiore al 67% della media europea. Il Governo negli ultimi mesi ha stabilito piani di sviluppo nel pubblico e nel privato connessi all’occupazione femminile, e con le risorse del Next generation EU – Italia circa 211 miliardi di euro – c’è l’opportunità di attuare gli obiettivi del gender gap per procedere verso una società meno selettiva e più equa. Istituzioni, enti e organizzazioni accademiche stanno pressando la politica per realizzare riforme e strategie integrate per le donne con l’istruzione, investimenti e strutture sociali e accrescere la loro partecipazione nel tessuto produttivo italiano.

Durante la live conference di aprile organizzata dal Centro Studi Americani insieme ad Inclusione Donna si è discusso sulla “Parità di genere: da tatticismo ad approccio sistemico” con l’intenzione di creare spunti di riflessione in vista del Summit G20 di ottobre. Alla tavola rotonda hanno partecipato Carlotta Ventura, former Director del Centro Studi Americani, Sila Mochi, coordinatrice di Inclusione Donna, Federiga Bindi, Senior Fellow, Institute for Women’s Policy Research, Maria Cecilia Guerra, Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Economia e Finanze ed Elena Bonetti, Ministra per le pari opportunità e la famiglia.

Certificazione di genere e norme standard per aziende pubbliche e private

Sila Mochi sostiene che è indispensabile nominare una commissione parlamentare per le pari opportunità, acquisire i documenti dell’impatto di genere per esprimere pareri sui provvedimenti legislativi e prendere decisioni d’investimento sulle riforme con indicatori quali-quantitativi. Per fare ciò è inevitabile innescare un cambio culturale all’interno dell’imprese pubbliche e private attraverso la certificazione della parità di genere, la parità retributiva e le policy adottate dalle organizzazioni. La coordinatrice d’Inclusione Donna sostiene che bisogna spingere verso uno schema di certificazione di genere basato su norme standard da adottare in forma gratuita e facoltativa da parte delle aziende pubbliche e private e che siano premianti.

Approccio sistemico per la parità. Il punto di vista della Ministra Bonetti

Elena Bonetti, Ministra per le pari opportunità e famiglia

La ministra è certa che serve un approccio sistemico nel riconoscere nella parità un elemento costitutivo per lo sviluppo sostenibile del nostro paese. Il Governo ha adottato posizioni radicali nei dibattiti parlamentari e con la presidenza del G20 per la prima volta si affronterà la questione dell’empowerment femminile come asset di sviluppo trasversali che punti a scelte precise nel contesto internazionale. L’Italia – con il piano Next generation EU -vuole dotarsi di una strategia nazionale per la parità di genere in accordo con quella europea 2020-2025 individuando interventi specifici nell’ambito del lavoro femminile, delle competenze, dei servizi sociali, della leadership femminile e un monitoraggio di valutazione con il bilancio di genere. Questo strumento, continua la ministra, va rafforzato coinvolgendo la politica anche in ambito territoriale. “Il Governo” spiega “sta pensando d’introdurre strumenti di indicizzazione nelle imprese per sostenere le aziende e promuovere investimenti sul lavoro femminile che porteranno ad un incremento del PIL in tutto il Paese. La questione di genere è necessaria per permettere all’Italia di fare un balzo in avanti e nel Piano di Ripresa e Resilienza – PNRR è inserito un progetto che riguarda gli investimenti nell’imprenditoria femminile, formazione STEM e digitale, fino ad arrivare alle future professioni contemplate all’interno della transizione ecologica”. Tra i vari capitoli c’è quello delle infrastrutture sociali per sostenere le comunità a partire dagli asili nido, perché l’uguaglianza è strettamente connessa alla questione demografica. In Stati dove c’è un’ampia partecipazione femminile al lavoro si verifica un incremento di nascite, maggiore sviluppo, migliore welfare e dinamismo sociale. “Per attivare queste leve” conclude la ministra “è opportuno rompere gli stereotipi che spesso escludono le donne dalle professioni scientifiche”.

Bilancio di genere strumento per abbattere le disparità sul lavoro

Maria Cecilia Guerra, Sottosegretaria di Stato al MEF

Maria Cecilia Guerra spiega che è sbagliato considerare le donne fragili, quindi hanno bisogno di essere accompagnate con incentivi fiscali per colmare difficoltà legate ad una natura vulnerabile rispetto agli uomini. L’attenzione deve invece porsi sulle difficoltà d’ingresso al lavoro legate agli stereotipi culturali radicati nella nostra società, dove alcune professioni non sono accettate e la carriera non è ammessa. C’è poi la difficoltà legata all’organizzazione sociale (organizzazione del lavoro e famiglia) che le vede ancora protagoniste del lavoro di cura e nella capacità di sostenere le persone non autosufficienti, figli, anziani, persone con disabilità e accudimento nei lavori domestici. Queste condizioni non attengono agli incentivi sul lavoro commenta Guerra ma si riferiscono al fatto che ancora oggi non esiste un riconoscimento sociale del ruolo di cura senza il quale la società non va avanti. “Il tema di genere attraversa tutte le politiche sociali” e aggiunge “occorre vedere come queste politiche incidono sulle donne per cancellare le discriminazioni. Uno strumento per abbattere le disparità è il bilancio di genere realizzato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che misura l’impatto delle politiche dello Stato sulle disuguaglianze uomo-donna. Il documento composto da 128 indicatori statistici, dal lavoro alla conciliazione della vita privata, tutela e assistenza, istruzione e violenza, consegna in dettaglio una fotografia sulle politiche da monitorare e in futuro potrà essere inserito in una piattaforma agile da controllare. Un documento articolato ma non sufficiente che va potenziato e richiede consapevolezza di tutti gli attori sociali con la creazione di competenze specifiche ed un patrimonio d’informazioni più dettagliate.

Occupazione femminile negli USA pre e post Covid – 19

La pandemia negli USA ha accresciuto le disparità tra ricchi e poveri, persone di colore e donne, ha commentato Federiga Bindi. Solo i liberi professionisti hanno continuato a lavorare senza restrizioni, anzi la pandemia è stata un’opportunità e molte compagnie private hanno dichiarato che in futuro non torneranno a lavorare in presenza e a tempo pieno. Ha aggiunto che il Covid ha prodotto un cambiamento epocale nella società americana e la classe media ha ottenuto notevoli vantaggi economici. Diversa invece è stata la situazione dei giovani e donne dove il trend occupazionale si è capovolto; sono state le donne di colore (oltre 11milioni) con bassi livelli di istruzione ad essere penalizzate contro 9 milioni di uomini e i settori femminili più colpiti dalla pandemia hanno coinvolto la cura, l’ospitalità, la ristorazione e i negozi.

Cristina Montagni

La crisi dell’occupazione femminile e gli effetti prodotti dal Covid-19

I dati divulgati a settembre dall’Istat confermano la paura diffusa fin dalle prime settimane dell’emergenza Covid-19 e cioè che, con la crisi, a rimetterci, sarebbero state soprattutto le donne

Ancora una volta le donne sono le più penalizzate durante la pandemia. Gli effetti prodotti dal Covid-19 sul mercato del lavoro registra tra il secondo trimestre 2019 e lo stesso periodo del 2020, 470 mila occupate in meno, un calo del 4,7%. Su 100 posti di lavoro perduti, 841 mila in totale, quelli riguardati la componente femminile rappresentano il 55,9%, mentre quella maschile ha mostrato una tenuta registrando una diminuzione del 2,7% (371 mila occupati). È quanto emerge dall’ultimo focus della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, che vede nelle donne una preziosa risorsa per l’intera tenuta del sistema Italia. La Fondazione lancia un allarme per l’occupazione femminile soprattutto a fronte della nuova ondata di contagi e delle chiusure territoriali che potrebbero portare altre donne ad abbandonare definitivamente il proprio lavoro.

Contrazione settoriale del lavoro femminile

La maggiore contrazione del lavoro femminile si registra nell’occupazione a tempo determinato (-327 mila lavoratrici, un calo del 22,7%), nel lavoro autonomo (- 5,1%), nel part-time (-7,4%) e nel settore dei servizi, soprattutto ricettivi e ristorativi dove le donne rappresentano il 50,6% del totale e assistenza domestica, qui la componente femminile rappresentata l’88,1%.

Esperienza delle donne durante il lockdown e l’home working

Durante il lockdown primaverile le donne hanno gestito un carico di lavoro senza precedenti. Da un lato, sono state impegnate più degli uomini nell’attività lavorativa (il 74% ha continuato a lavorare rispetto al 66% degli uomini), garantendo i servizi essenziali in settori a forte vocazione femminile: scuola, sanità, pubblica amministrazione. Dall’altro con la chiusura delle scuole, hanno garantito la presenza al lavoro e accompagnato i figli nella didattica a distanza, con un livello di stress elevato per circa 3 milioni di lavoratrici con un figlio a carico con meno di 15 anni (30% delle occupate). In aggiunta l’home working – unito alla scarsa flessibilità organizzativa di molte realtà lavorative e alla difficile conciliazione vita-lavoro – ha acuito il malessere del genere femminile. Occorre rammentare che nell’ultimo anno la tendenza ad allontanarsi dal lavoro è cresciuto sensibilmente, facendo registrare tra giugno 2019 e 2020 un incremento di 707 mila inattive (+8,5%), soprattutto nelle fasce giovanili.

Le donne e il loro contributo all’occupazione qualificata

Il presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro Rosario De Luca, ha dichiarato che il 54% delle professioni intellettuali è donna. “Per questo è necessario attuare un mix di politiche, dal potenziamento dell’offerta e dell’accessibilità dei servizi che favoriscono la conciliazione vita-lavoro, a percorsi formativi spendibili nel mercato del lavoro che sostengano l’occupabilità delle donne, arginando il rischio che possano chiamarsi fuori dal circuito lavorativo”. L’innovazione dell’organizzazione del lavoro rappresenta un obiettivo prioritario per consentire un adeguato ricorso allo smart working in questa seconda fase critica della pandemia. È necessario quindi incrementare la qualità del lavoro, dotare le aziende di strumenti in grado di valorizzare il lavoro da casa senza che diventi lavoro di serie b, sostenere la fiducia femminile nelle proprie risorse e potenzialità per aiutare le donne in una fase di passaggio epocale rischiosa, ma al tempo stesso ricca di nuove sfide e opportunità. La crisi sanitaria – ha concluso – può essere un’opportunità per molte aziende per rivedere i modelli organizzativi e renderli più flessibili alle esigenze delle donne, così da poter superare quelle contraddizioni che caratterizzano il lavoro femminile nel nostro Paese”. 

Cristina Montagni

INTERVISTA ALLA SEGRETARIA GENERALE CISL ANNAMARIA FURLAN

Intervista alla Segretaria Generale della Cisl Annamaria Furlan per affrontare temi di interesse per il mondo del lavoro femminile.
La questione femminile per la Segretaria Generale Cisl Annamaria Furlan non è solo difendere il valore sociale del lavoro, ma riflettere sulla contrattazione di genere, sul divario retributivo e la difficoltà a mantenere il lavoro in presenza di una famiglia spesso considerata ostacolo all’ingresso e alla progressione della carriera.

Segrataria Generale Cisl Furlan

Segretaria Furlan, lei è ai vertici di una delle principali organizzazioni sindacali d’Italia e conosce le difficoltà nella conciliazione tra vita familiare e professionale. Vede progressi sulla condizione delle donne in Italia nelle pari opportunità di retribuzione e carriera?

Abbiamo fatto indubbiamente dei progressi, ma manca ancora nel nostro paese una politica strutturale per favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia. La partecipazione della donna nei contesti produttivi è pesantemente penalizzata da fattori ambientali e culturali. Le regole sono uguali per tutti, ma non tutti beneficiano delle stesse condizioni di partenza. La bassa occupazione femminile, oltre che per le note ragioni di crescita zero del nostro Paese, è prevalentemente legata agli impegni familiari e alla scarsa disponibilità di servizi, basti pensare che una donna su quattro lascia ‘volontariamente’ il lavoro alla nascita del primo figlio, con riflessi molto negativi anche sulla povertà delle famiglie. Il problema centrale resta, soprattutto, non solo al Sud, quello di creare le condizioni di ingresso, di permanenza e di competizione “alla pari” nel mercato del lavoro.

Il 30 gennaio è stato siglato l’accordo tra cooperative e sindacati per favorire lo sviluppo di una cultura contraria ad ogni forma di discriminazione. Quali novità introduce l’accordo ai fini dei diritti della persona?

L’intesa ci impegna ad introdurre nei singoli contratti nazionali di lavoro nuove disposizioni per prevenire e tutelare forme di discriminazione, molestia o violenza di genere nei luoghi di lavoro, favorendo momenti collettivi di sensibilizzazione e formazione sul tema ai diversi livelli (nazionale, regionale/territoriale o aziendale). Prevede inoltre iniziative di informazione e di formazione per tutte le figure coinvolte, con lo scopo di prevenire l’insorgere di comportamenti molesti e violenti nei luoghi di lavoro attraverso la diffusione di una maggiore consapevolezza e capacità di discernimento del fenomeno e dei comportamenti a rischio.

Per contrastare le fragilità lavorative e retributive delle donne quali sistemi di protezione possono essere introdotti per arginare il fenomeno del lavoro povero e discontinuo?

La carriera lavorativa delle donne è la più discontinua e precaria nel mercato del lavoro. Le donne sono le prime a dover scegliere il part – time per conciliare il lavoro con la maternità, la cura della famiglia, l’assistenza ai parenti non autosufficienti. Tutto questo ha delle conseguenze sul salario, sulle condizioni di vita e sulla futura pensione. Mancano sgravi contributivi o incentivi di carattere strutturale finalizzato all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, con una particolare attenzione alle donne migranti, che soffrono spesso una discriminazione multipla e alle donne vittime di violenza e di tratta. Sono scarsi gli investimenti sui servizi educativi, socio assistenziali e socio sanitari, soprattutto nel mezzogiorno. Inoltre, come sta avvenendo adesso in base ad alcune disposizioni legislative ampliare il congedo obbligatorio per i padri favorirebbe la conciliazione e la condivisione dei ruoli di cura tra uomini e donne.

Di fronte ai cambiamenti tecnologici sui sistemi di produzione, la contrattazione può definire strumenti diversi partendo dalla differenza di genere?

Certo. La contrattazione nazionale ed aziendale rappresenta lo strumento primario in grado di promuovere la parità e le pari opportunità nei diversi contesti produttivi. Si possono prevenire e contrastare quelle forme di discriminazione che favoriscono ed alimentano segregazione e segmentazione lavorativa di genere. Ci sono già tanti accordi molto innovativi in tantissimi settori produttivi ed aziende per una migliore conciliazione tra lavoro e famiglia sul piano degli orari, del welfare integrativo, della assistenza per le donne madri.  Ma bisogna fare di più. Per questo vogliamo incentrare l’attenzione sul ruolo della contrattazione di genere come protagonista del cambiamento. Il gender pay gap rimane un tema cruciale per il sindacato nella lotta contro le discriminazioni legate al genere. La parità di retribuzione sarebbe il più grande stimolo all’economia europea e solleverebbe milioni di donne dalla povertà. Eliminerebbe di fatto un’altra disparità, direttamente collegata alla prima, il gap pensionistico che vede nel nostro Paese le donne percepire un assegno di pensione inferiore di circa il 30% rispetto a quello degli uomini.

Annamaria Furlan CislPer quanto riguarda la sicurezza nei luoghi di lavoro, esistono malattie “di genere” legate alle condizioni lavorative che colpiscono in modo diverso uomini e donne?

Abbiamo fatto indubbiamente dei progressi sul piano della prevenzione e tutela grazie al recepimento negli anni Novanta della direttiva europea nelle diverse legislazioni nazionali. Tra queste, l’estensione della tutela della salute e sicurezza sul lavoro non solo ai “prestatori di lavoro”, ma anche alle “prestatrici di lavoro”, intesa per tutto l’arco della vita lavorativa e non solo per lo specifico tempo della gravidanza e maternità. Ma bisogna fare ancora tanto perché ci sono tante malattie professionali a carico delle lavoratrici, condizioni di danno, sofferenza ed esposizione a rischio infortuni sempre maggiori. Penso per esempio alla rilevanza degli infortuni in itinere per le lavoratrici: oltre la metà dei casi mortali nel tragitto di andata e ritorno tra la casa e il luogo di lavoro. Penso all’aumento delle denunce di malattie dell’apparato osteo-muscolare o del sistema nervoso che rappresentano il 90,1% del totale delle patologie professionali delle donne. Le inadeguate condizioni di lavoro incidono spesso sulla salute delle lavoratrici e questo determina costi maggiori da sostenere per la propria salute, così come anche una possibile minore retribuzione determinata da perdita di ore lavorate per assenza per malattia.

Coinvolgere le donne nei processi decisionali d’impresa può portare benefici all’azienda?

È un’altra battaglia sindacale che la Cisl porta avanti dalla sua nascita. La partecipazione dei lavoratori è lo strumento per alzare non solo la qualità e la produttività delle aziende, ma anche per aumentare i salari, ridurre gli orari, migliorare le condizioni generali delle donne lavoratrici. Le aziende che funzionano meglio sono proprio quelle che hanno puntato sulla corresponsabilizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici nelle scelte e nelle decisioni. Anche il sindacato, da parte sua, riconosce in sé stesso la presenza determinante della componente femminile, sia nel numero di lavoratrici iscritte, sia nella presenza negli organismi di dirigenza sindacale e nei tavoli di contrattazione.

Secondo lei i vertici delle aziende sono sensibili all’organizzazione del lavoro in modo da garantire pari opportunità nella conciliazione dei tempi di vita e di lavoro?

Anche se si sono fatti passi avanti, la maternità purtroppo viene considerata ancora come un ostacolo all’ingresso ed alla progressione di carriera. Occorre intervenire sugli ostacoli che fanno della maternità non un valore sociale ma un bivio tra gli affetti e la carriera. Non è un caso se in fatto di natalità il nostro Paese è tra gli ultimi posti in Europa. Una donna su 3 lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Sono ancora poche le madri con un bambino che lavorano rispetto al resto dell’Europa (57,8 % contro 63,4 %) e, soprattutto, se paragonate agli uomini (86 %). Quando poi i bambini crescono i numeri crollano al 35,5 % (la media UE è del 45,6 %). In molti casi la rinuncia alla maternità va collegata direttamente anche all’inadeguatezza di servizi a sostegno della genitorialità. In Italia solo il 18% dei bambini trova posto negli asili nido pubblici, mancano politiche finalizzate alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, allo smart working, alla flessibilità negli orari. Non è solo un problema di leggi da far rispettare. Dobbiamo fare di più con la contrattazione, nazionale, aziendale e nei territori, ponendo le condizioni per una valorizzazione ed una specificità del lavoro femminile. Il problema famiglia/lavoro deve essere affrontato nella consapevolezza che si tratta di un investimento per lo sviluppo del nostro Paese e non di un costo per la società. Solo così potremo disegnare nuovi orizzonti di crescita e celebrare il ruolo straordinario delle donne in una società sempre più multietnica e multiculturale.

Negli ultimi 30 anni in Italia la differenza nei tassi di occupazione tra uomini e donne non hanno avuto esiti positivi. Solo il 48% delle donne lavora, meno di una donna su due. Perché è difficile per le donne accedere al mondo del lavoro? Quali strumenti si dovrebbero adottare per invertire questa tendenza?

Bisognerebbe intervenire almeno su cinque ambiti d’azione: ripristinare i finanziamenti per incentivare la contrattazione aziendale per la conciliazione, che aveva prodotto risultati interessanti nel 2016 e 2017; consolidamento degli incentivi finanziari per aziende e lavoratrici. Rafforzare i congedi e la flessibilità dell’organizzazione e degli orari lavorativi; aumentare la disponibilità dei servizi all’infanzia e valorizzazione del lavoro di cura. Non occorre solo promuovere una maggiore occupazione femminile, ma è necessario garantire anche la permanenza delle donne nel mondo del lavoro. Sono le donne a pagare il prezzo più alto della precarietà, del lavoro nero, dello sfruttamento, con conseguenze pesanti per tutta la collettività, anche in termini di natalità. Per questo continuiamo a sostenere, in materia previdenziale, che va riconosciuto alle donne almeno un anno di contributi per ogni figlio. In questo quadro l’iniziativa sociale e sindacale attraverso la contrattazione nazionale e decentrata deve contribuire a consolidare e rafforzare la lotta alle discriminazioni, sfruttamento e violenza, valorizzando le politiche di genere e costruendo strumenti negoziali per conciliare vita e lavoro. Legislazione, contrattazione e cultura sono tre dimensioni connesse per una buona battaglia verso un cambiamento che riguarda tutti per una società più giusta, equa e partecipata.

Solo il 27% delle donne ricopre posizioni manageriali, un dato fermo nell’ultimo quarto di secolo. Quali interventi si potrebbero adottare affinché le donne non siano più relegate ad occupare mansioni che richiedono competenze inferiori?

Dobbiamo garantire a tutte le donne in tutti i contesti le stesse opportunità di carriera, reali politiche attive di formazione professionale, di valorizzazione e di crescita. Tante sono le donne che in tante aziende o anche nel settore del pubblico impiego fanno fatica ad emergere, a sviluppare il loro talento e le proprie competenze. Bisogna superare tanti ostacoli culturali e sociali, soprattutto a chi come le donne deve, in molti momenti della vita, conciliare il lavoro con la cura delle persone. È lo sforzo che la Cisl e tutto il sindacato fanno ogni giorno.

Cristina Montagni

Intervista alla Sindaca di Roma Virginia Raggi

Ho incontrato la Sindaca Virginia Raggi per approfondire alcuni temi legati al futuro dell’imprenditoria femminile, quali sfide e strumenti per favorire percorsi di carriera femminili anche in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale

Le imprese femminili possono essere protagoniste del sistema produttivo nel territorio romano?

I dati ci mostrano come l’imprenditorialità femminile, nel nostro territorio, sia in crescita. Di recente, in occasione dell’8 marzo, ho partecipato alla premiazione di alcune imprenditrici innovative alla Camera di Commercio di Roma che, in quell’occasione, ha comunicato i dati 2017 sull’imprenditoria femminile. Ed i numeri sono molto incoraggianti: tra Roma e provincia abbiamo superato le centomila imprese guidate da donne. È un dato importante, che fa di Roma la prima provincia italiana per numero di attività imprenditoriali femminili. Solo nella Capitale, il 20,4% delle imprese è guidato da donne. E se guardiamo agli anni appena trascorsi, vediamo che il dato è in aumento.

Quali strumenti riterrebbe utili per accrescere la piccola impresa femminile orientata all’innovazione?

Sicuramente bisogna puntare sull’orientamento, sulla formazione e sull’autoimprenditorialità, ma in chiave innovativa. In tal senso, Roma è una delle città italiane a più alta densità di startup e incubatori certificati. Fondamentale facilitare l’accesso al credito, che resta uno dei maggiori ostacoli per la vita media di un’impresa, favorendo i contatti tra imprenditoria e investitori.

 Secondo lei in che modo si potrebbero coinvolgere le imprenditrici del territorio nella diffusione di tematiche sociali e ambientali, per avere un tessuto imprenditoriale più etico dal punto di vista della sostenibilità ambientale e sociale?

Mi sembra che questi temi siano già frequentati dalle imprenditrici, ed anche dalle imprenditrici tecnologiche. Quello dell’Innovation Technology è un ambito che ben si presta allo sviluppo di attività etiche, sia perché consente di operare nel sociale sia perché permette di sviluppare idee nel rispetto dell’ambiente. Penso, ad esempio, all’esperienza di ImpReading con cui l’imprenditrice Elena Imperiali, partendo da una propria esperienza, ha creato un software che aiuta ragazzi disgrafici e dislessici nell’uso del Pc.

L’Italia è al top in Ue per numero di imprenditrici. Ma le imprenditrici devono fare i conti con un welfare che non le aiuta a conciliare il lavoro con la cura della famiglia. Quali interventi suggerirebbe alle istituzioni per colmare questo gap?

Il nodo più duro da sciogliere per una lavoratrice è riuscire a conciliare il lavoro con la maternità. Ritenere che avere dei figli sia penalizzante è inaccettabile. Le istituzioni devono agire principalmente su questo fronte, rendendo la genitorialità sostenibile.

Come potrebbero le imprese favorire percorsi di carriera femminili più rapidi?

Credo che le donne non necessitino di corsie preferenziali. Sappiamo bene che esiste una disparità di genere: nei trattamenti salariali, nell’attribuzione di ruoli dirigenziali, nel riconoscimento delle capacità lavorative. Dobbiamo puntare ai diritti, perno costante e irrinunciabile della nostra azione politica, ma senza creare ‘recinti per i panda’. Le donne hanno le qualità per affermarsi da sole, dobbiamo fare in modo che abbiano le stesse opportunità degli uomini. 

Le condizioni economiche delle donne e la loro dipendenza finanziaria potrebbero in qualche modo secondo lei incidere sulla possibilità di trovarsi in situazioni di violenza?

La violenza non ha giustificazioni né alibi. È evidente che il tema è estremamente delicato e va affrontato sistematicamente su più livelli. Riguardo alle condizioni economiche certamente la reale parità di genere passa anche da una parità delle retribuzioni, che ancora non c’è: facciamo una lotta comune, uomini e donne.

Sul tema degli abusi, ci siamo impegnati in prima linea con un potenziamento della rete dei Centri anti-violenza: solo dal 12 marzo ne abbiamo aperti tre, perseguendo l’obiettivo complessivo di aprirne uno in ogni municipio. Il percorso di recupero psicologico delle vittime è fondamentale, la violenza va combattuta in ogni ambiente.

Crede sia possibile ripensare la Capitale come una sorta di grande “laboratorio di progettazione” per attività di promozione dell’imprenditoria femminile e dell’occupazione in genere?

La nostra città ha enormi potenzialità e offre moltissime possibilità: è un polo culturale e scientifico di primaria importanza. Conta molti incubatori e acceleratori per startup. Ospita una ventina di atenei, tra pubblici e privati. Certo, occorre rafforzare ed ampliare le sinergie esistenti. Mettere in comunicazione istituzioni e mondo accademico per creare servizi di assistenza alle start up che attirino talenti e idee.

Nel territorio di Roma sono previsti percorsi di formazione specifici per avviare una start up innovativa femminile?

Proprio in questi giorni si è svolta (6-14 aprile) la Rome start up week 2018, un grande evento europeo che, con il Patrocinio di Roma Capitale, ha previsto numerosi incontri con esperti italiani ed esteri dove si è parlato di innovazione, investimenti ed imprenditorialità. Nel territorio romano sono attivi numerosi incubatori ed acceleratori che l’associazione Roma Startup ha mappato sul suo sito, mostrando una realtà ricca di proposte aperte alle imprenditrici.

Quali programmi sta portando avanti l’Amministrazione per permettere il raggiungimento della parità di genere in campo lavorativo?

Con l’adesione a progetti di flessibilità lavorativa, Roma vuole cogliere una grande opportunità di trasformazione e di evoluzione per una moderna organizzazione e per il benessere della città. Indirizzare e sostenere nuovi processi e modalità di lavoro vuol dire diffondere la cultura della conciliazione di stili di vita, rivolti al benessere complessivo della persona.

È in questa ottica che Roma Capitale ha partecipato, all’interno di una rete che comprende anche la Città Metropolitana, ad un bando del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’attivazione di percorsi di lavoro “agile” all’interno dell’Amministrazione.

Roma Capitale beneficerà di consulenza e supporto all’implementazione di forme di lavoro agile che consentano alle dipendenti e ai dipendenti la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. L’avvio delle attività è prevista a partire da maggio 2018.

Alla conferenza Women4Climate in Messico sono state invitate sindache e donne d’affari di tutto mondo impegnate nella lotta ai cambiamenti climatici. 10 giovani donne sono state inserite nell’amministrazione della loro capitale per aver presentato progetti sui temi del clima. Un programma simile può essere attuato anche nella nostra Capitale visto che ne è già stato realizzato uno a Parigi e un altro verrà realizzato prossimamente a Montreal e Vancouver?

Roma ha deciso di impegnarsi in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici e il Convegno C40 Women4Climate a Città del Messico ha rappresentato una grande opportunità di confronto per le grandi capitali mondiali. In quell’occasione ci siamo già resi disponibili per il programma di “mentoring” e probabilmente già dall’anno prossimo lo realizzeremo.

Cristina Montagni